La sua «carriera» è iniziata in oratorio. Nell’immediato dopoguerra, nel suo paese natale, Cormòns. Anche se poi con gli oratori – «di ogni parte d’Italia » – ha sempre mantenuto un filo diretto. Frequentandoli ancora, ma questa volta da giornalista. Per testimoniare come questa esperienza abbia segnato poi – «in positivo» – tutta la sua vita. Bruno Pizzul – inconfondibile telecronista Rai delle sorti della nazionale di calcio dal 1986 al 2002 –, 80 anni appena compiuti, racconta a «la Vita Cattolica» i suoi anni di divertimento in oratorio. Allora la guerra era finita da poco, ricorda. «Erano anni piuttosto difficili per un territorio di confine, quando ancora non si capiva bene se saremmo finiti sotto la Jugoslavia o con l’Italia».
Preoccupazioni e paure che, al pari di moltissimi suoi coetanei, cercava di scacciare proprio frequentando l’oratorio?
«Certo. Da queste parti lo chiamavamo però ricreatorio».
Lei ama ricordare che un giorno accadde qualcosa di miracoloso.
«Il prete, il nostro “don Rino” Coccolin, che si chiamava in realtà Pietro e che sarebbe diventato arcivescovo di Gorizia, riuscì a trovare un pallone. L’unico a disposizione di tutti i ragazzi del paese, attorno al quale si formava quotidianamente una processione per riuscire a fare una partita».
A quel calcio che, prima giocato poi raccontato, è diventato di fatto il suo mestiere.
«Ho cominciato giocando nella squadra dell’oratorio nel campionato CSI, allora campionato Alba. Poi, secondo una trafila comune a quei tempi molti dei ragazzi che frequentavano la parrocchia, ed erano tra i più bravi a calcio, venivano presi nella squadra del paese».
Così Bruno Pizzul si è avviato a questo gioco fuori dalle mura dell’oratorio.
«Ho iniziato con la Cormonese, poi sono stato acquistato dal Catania. Qualche anno sui campi, poi l’ingresso in Rai. Ho girato parecchio e dappertutto dove sono andato ho trovato riferimenti costanti e continui all’oratorio. Soprattutto nella parte finale della mia carriera giornalistica quando sono stato per quasi 40 anni a Milano. In Lombardia gli oratori funzionano ancora benissimo, ottimamente organizzati».
Li ha frequentati anche da grande, insomma?
«Certo. Spesso sono stato chiamato a parlare ai ragazzi proprio per questa mia frequentazione in gioventù, ma anche perché mio figlio è stato per anni presidente dell’Azione cattolica della Diocesi di Milano e, quindi, era lui a mandarmi ad incontrare i giovani per raccontare la mia esperienza».
L’oratorio, quale punto di riferimento nella sua vita, non solo nell’adolescenza, dunque?
«È un legame che ha accompagnato la mia ormai lunga vita ovunque mi trovassi. Era punto di contatto e frequentazione pressoché costante. Persino al sud, che non ha una tradizione radicata come nelle parrocchie lombarde, se non in quelle guidate dai Salesiani che hanno sempre avuto una particolare attenzione per il momento del gioco e dello sport».
Ma nell’oratorio di don Rino non c’era solo il pallone del miracolo…
«Si facevano tantissime altre cose. Al momento di aggregazione ludico-gioiosa si accostava quello educativo, la dottrina, il cineforum e gli accesi dibattitti che scatenava, soprattutto con gli scout che avevano un visione più naturalistica della vita, con le loro camminate e i campeggi. Noi eravamo stanziali… In oratorio a giocare a calcio».
Tra qualche settimana saranno migliaia i giovani e giovanissimi a vivere l’esperienza dei centri estivi parrocchiali. Oggi come allora attività sportiva e gioco restano motivo d’attrazione.
«Aggiungo che, se gestiti nella giusta maniera, gli oratori diventano una vera e propria agenzia educativa. La funzione sociale è indiscutibilmente importantissima. Anche per i tanti genitori che lavorano e che possono lasciare i figli in parrocchia. Al tempo stesso per i giovani questi momenti sono l’occasione per capire l’importanza e la piacevolezza dello stare assieme, del confronto e del rispetto reciproco».
Oratorio e calcio, binomio che “tiene” ancora oggi. Ma quanto l’oratorio nel tempo ha dato al calcio?
«Tantissimi campioni. Come i due fratelli Baresi, Donadoni, Albertini, suo fratello diventato poi il sacerdote che curava il CSI, Mazzola, Bergomi, giusto per citarne alcuni. Tutti loro ricordano
il periodo dell’oratorio come un momento fondamentale della vita dove hanno maturato molto più di una educazione sportiva, ma un patrimonio di valori importantissimo che li ha accompagnati poi nella carriera».
Oggi a giocare a calcio si impara in apposite scuole, non più in oratorio.
«Purtroppo il calcio giovanile di adesso è caratterizzato dalla voglia di diventare campioni, di guadagnare tanti soldi. Spesso sono i genitori che accompagnano i ragazzi in questi loro sogni. Che il più delle volte non si realizzano. E i giovani abbandonano lo sport. Noi in oratorio giocavamo per il piacere di farlo, senza l’ossessione della carriera, senza allenatore, ma con una gerarchia di valori stabilita dai ragazzi stessi. Ci si sfiniva in interminabili partite e si imparava la tecnica individuale cosa che oggigiorno nelle scuole calcio, sembra incredibile, ma non si pratica più».
Nessuna ossessione per la carriera, dunque. Ma solo quella di arrivare a dare almeno un calcio al pallone procurato da don Rino…
«Ricordo spesso e volentieri, quando parlo della mia esperienza in ricreatorio, l’immagine di quell’unico pallone e tutti i ragazzi del paese che lo inseguivano. Oggi in tanti oratori capita di vedere che ci sono tanti palloni e pochi ragazzi».
Un appello?
«Giovani, frequentate la parrocchia, il centro estivo o l’oratorio. E divertitevi. Perché a noi quel divertimento ha insegnato tante cose.»
Intervista di Monika Pascolo per “La Vita Cattolica” del 30 maggio 2018
Per approfondire:
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