Articolo di Matteo Liut, tratto da Avvenire
Se vogliamo dare un futuro alle nuove generazioni – il loro futuro e non il futuro che noi vorremmo per loro – la ricetta è una sola: i giovani bisogna imparare ad amarli. Amarli con le loro contraddizioni, con le loro follie, le loro ribellioni; amarli per le loro energie, per la loro voglia di “spaccare il mondo”, per i loro desideri; amarli anche quando si ritirano, quando chiudono i ponti, quando voltano lo sguardo altrove. Si possono mettere in campo le forze migliori per architettare piani di futuro per i giovani, ritoccare le norme, aiutare la scuola, incentivare il lavoro, ma in realtà loro non vogliono il nostro aiuto, vogliono solo essere lasciati liberi di costruire il mondo che sognano. Mentre il Paese festeggiava il Primo Maggio, ricorrenza che vorrebbe riunire tutti attorno allo strumento fondamentale per la costruzione del futuro, il lavoro appunto, a Terrasini, poco lontano da Palermo, 800 persone impegnate nell’azione pastorale giovanile in tutta Italia si facevano una sola domanda: come amare di più i giovani? Un quesito fondante che, come un sottile filo rosso, ha tenuto insieme i quattro giorni di un Convegno nazionale (il sedicesimo della serie) dedicato al tema “Dare casa al futuro”.
Quel quesito – come amarli? – nella Chiesa di fatto tiene banco da più di due anni, da quando cioè è stato indetto il Sinodo sui giovani. E la Chiesa italiana, di fatto, lo ha messo al centro delle proprie preoccupazioni per un intero decennio, decidendo di dedicare gli anni dal 2010 al 2020 al tema dell’educazione, dell’accompagnamento alla scoperta della «vita buona del Vangelo». Ma come si fa a “Dare casa al futuro” di questi giovani che sembrano buttare alle ortiche tutto quello che viene offerto loro? La risposta è una sola: amandoli. Ecco il senso dell’appello di papa Francesco – appello divenuto pietra miliare del Sinodo – a mettersi ‘in ascolto’ delle nuove generazioni, a lasciarle parlare e lasciarsi cambiare da ciò che esse dicono. Sbaglia chi pensa che il Sinodo sia servito per capire come tenere i giovani vicini alla Chiesa, perché è vero il contrario: è la Chiesa che si interroga su come stare vicina ai giovani.
E a Terrasini è apparso chiaro che la chiave non sono (almeno non solo) i progetti – pastorali, politici, economici, sociali – ma è l’amore. E se questo sembra poco o banale, l’invito è a dare uno sguardo alla qualità delle relazioni che viviamo ogni giorno negli ambienti che frequentiamo. Il paradigma culturale in cui siamo immersi ci vuol far credere che la realtà è arida e che l’unico modo per rispondere è il “fare i duri”, prevaricare, mostrare i muscoli.
Ecco perché la cura della qualità delle relazioni nelle comunità cristiane è il primo messaggio profetico che la Chiesa porta nel mondo. Offrire ai giovani relazioni buone, di vero affetto, autentiche, è il primo passo per fare ciò che nessun altro agente sociale può fare: mostrare loro che la vita è molto di più. Che la vita è anche quel “mistero” che la Chiesa celebra con molta serietà – senza inutili e ridicole imitazioni dei riti della società commerciale – nella liturgia. Così facendo aiuteremo davvero i giovani a liberare le loro energie perché siano essi stessi a costruire il loro futuro.
Nella foto: la delegazione della PG dell’Arcidiocesi di Udine assieme a don Michele Falabretti, responsabile del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile.
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